Quando i genitori chiedono aiuto per il/la proprio/a figlio/a, soprattutto se si tratta di un bambino/a si presentano con una serie di quesiti e dubbi proprio sull’inizio.

Cosa gli dico? Se poi si sente diverso nel venire qui?
Domande che il più delle volte rivelano in primis il proprio timore di risultare un genitore poco capace se non addirittura inadeguato.

Senza dubbio domandare aiuto può richiedere una grande dose di coraggio, non è sempre facile mettersi in discussione e sentire di doversi affidare a qualcun altro, con tutto ciò che questo comporta.
“Ho sbagliato… mi sento in colpa… non lo/a capisco…” sono frasi frequenti.

Anche se si tratta di sentimenti legittimi che vanno accolti, può essere più utile tentare di ribaltare questa posizione colpevolizzante e domandarsi “cosa sta succedendo? Che senso ha?”.
Con l’aiuto di uno psicoterapeuta che condivida queste domande si può allora iniziare a rintracciare il significato del malessere del proprio figlio.

I sintomi di una difficoltà emotiva/affettiva/relazionale, psichica e corporea non sono mai privi di senso, piuttosto campanelli di allarme di una sofferenza ben più profonda che vale la pena ascoltare. Se gli adulti usano le parole, i sogni e addirittura i silenzi nei loro racconti, per dirci o meno qualcosa di sé, del proprio mondo interno, dei propri vissuti e della propria storia, i bambini usano principalmente il gioco.

I bambini, soprattutto se piccoli, ci parlano così dei loro conflitti, dei loro bisogni, delle loro paure, delle loro sofferenze, giocando.
D. W. Winnicott, un grande psicoanalista che fu prima ancora un pediatra, scriveva in uno dei suoi testi Gioco e realtà:

“…è il Gioco che è l’universale e che appartiene alla sanità; il gioco porta alle relazioni di gruppo; il gioco può essere una forma di comunicazione in psicoterapia; il gioco facilita la crescita e pertanto la sanità e infine, la psicoanalisi si è sviluppata come una forma altamente specializzata di gioco, al servizio della comunicazione con se stessi e con gli altri… […]

Se il paziente non è in grado di giocare, allora c’è bisogno di fare qualcosa per mettere il paziente in condizioni di diventare capace di giocare, dopodiché la psicoterapia può cominciare. La ragione per cui giocare è essenziale è che proprio mentre gioca il paziente è creativo.”
Più avanti sempre scriveva “Per me, il giocare porta in maniera naturale all’esperienza culturale e invero ne costituisce le fondamenta”.

É per questo che le sedute con i più piccoli non sono come quelle con gli adulti ma delle sedute-gioco.
Il bambino dovrà sentirsi libero di esprimersi nella stanza di psicoterapia senza che i genitori o lo psicoterapeuta stesso si aspettino che parli, che racconti di sé e delle sue difficoltà.

Sia che preferisca parlare, come solitamente succede con i bambini più grandi o con gli adolescenti, sia che preferisca giocare, l’importante è che incontri principalmente attenzione e ascolto, funzioni basilari per costruire una fiducia di base con lo psicoterapeuta.
E così un percorso di aiuto potrà avere inizio.

Dott.ssa Marilina Cavaliere, Psicologa

[Immagine da Pexeles]

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